Nel 1961 Armand Feigenbaum, responsabile qualità della Generale Electric, probabilmente il primo quality manager della storia, affermò che i costi affrontati da un’azienda nella prevenzione degli errori di fabbricazione, erano di gran lunga preferibili rispetto a quelli sostenuti nella riparazione degli stessi. Preferibili perché sensibilmente minori. Secondo Feigenbaum era necessario lavorare e investire sulla qualità fin dalle primissime fasi del processo industriale, per evitare di trovarsi di fronte agli errori in una fase avanzata della lavorazione e dare vita a quella che lui chiamava la “fabbrica nascosta”.
Nel 1979 Philip B. Crosby, definito da Time Magazine “the leading evangelist of quality”, sostenne che la qualità, in realtà, non costasse nulla. La sua celebre frase “quality is free”, la qualità è gratis, afferma una verità che dovrebbe risultare evidente a molte aziende oggi: la qualità (e gli strumenti e le azioni atti a garantirla) non sono di per sé un costo, ma rappresentano un investimento ammortizzabile capace di garantire performance economiche migliori e, soprattutto, di evitare spese maggiori nel processo di riparazione degli errori.
Questi due studiosi divennero leggende nei loro ambiti perché furono i primi a parlare il linguaggio dei manager e degli amministratori: il denaro. Furono in grado di operare un collegamento fra la garanzia della qualità nel processo e il rendimento aziendale. Prima del loro contributo sulla materia le ansie dei responsabili qualità delle aziende manifatturiere venivano, nella maggior parte dei casi, derubricate come vane speculazioni teoriche. Feigenbaum e Crosby dimostrarono che non era così: le buone (come le cattive) performance delle aziende dipendono in buona parte dalla qualità che sono in grado di erogare.
I vantaggi di una qualità costante
Una ricerca statunitense che prosegue ininterrotta dal 1972 (“Profict Impact Of Market Strategy”) ha rilevato quali sono i vantaggi concreti (che si traducono in migliore reddittività) per le aziende che lavorano in qualità:
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Hanno una migliore retention dei propri clienti (una qualità essenziale in un mercato frammentato come il nostro, sottoposto ad una pressione concorrenziale enorme)
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Acquistano beni in maniera ripetitiva (quindi prevedibile, pianificabile e controllabile)
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Sono meno vulnerabili nella guerra dei prezzi (perché possono pianificare acquisti e investimenti nei momenti più favorevoli del mercato approvvigionandosi senza correre il rischio di andare in over buying)
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Possono investire meno nel marketing (la qualità che esprimono è spesso sufficiente e parla per loro)
Tutto questo ha un costo? Ovviamente sì, l’investimento deve essere adeguato per garantire i risultati che ho elencato poco sopra. Ma è necessario considerare sempre che i costi sostenuti nel correggere un errore in una fase avanzata del processo (ritirando ad esempio una vettura o uno smartphone difettosi dal mercato, o peggio ancora un prodotto chimico farmaceutico tossico) sono incomparabilmente più alti di quelli sostenuti nel prevenire tali errori. Quindi Crosby aveva in qualche modo ragione: l’espressione “il costo della qualità” è di per sé ingannevole, perché la qualità genera risparmio e introiti per un’azienda.
Quanto costa la mancata qualità?
Abbiamo affermato (Feingenbaum e Crosby prima di me) che il costo per garantire la qualità è infinitamente minore al costo che un’azienda deve affrontare per ripristinarla in una fase avanzata del processo produttivo. Vediamo quindi quanto un errore possa costare ad un’impresa. Per calcolare con precisione questo valore è necessario prendere in considerazione una varietà di elementi.
Quando l’errore genera uno scarto il calcolo dei costi deve necessariamente comprendere il costo dello scarto stesso (quindi il pezzo semilavorato e spesso inservibile a questo punto); il costo delle operazioni di selezione dei prodotti difettati (o il loro richiamo dal mercato); il costo del personale che si dovrà occupare dell’analisi dell’errore e del reporting necessari a evitare che l’errore si riproponga; il costo del fermo dei processi di fabbricazione e infine anche i costi di riprogrammazione delle apparecchiature per far riprendere la produzione. L’errore comporta in molti casi un processo di declassamento del prodotto (che genera altri costi di personale per la valutazione del downgrading, costi logistici extra connessi alla gestione del prodotto declassato e al suo downpricing), ma il costo più salato che un’azienda rischia di pagare è quello legato al depauperamento del suo capitale reputazionale. Un’impresa inaffidabile è fragile di fronte ad un mercato competitivo e rischia di vedere la propria clientela prendere il largo.
La qualità è un baluardo contro questi rischi.
Il controllo qualità collaborativo
Gli strumenti con cui un’azienda può impostare un processo di controllo della qualità dei suoi prodotti sono molteplici e l’automazione è stata sperimentata ampiamente in questa fase del processo, sempre con molti limiti. È infatti nel know how degli operatori, nell’occhio clinico di una forza lavoro esperta, che si cela la facoltà più preziosa e difficilmente riproducibile. Il mercato oggi richiede però ritmi e performance produttive che una copertura esclusivamente manuale di questa fase del processo non è più in grado di assicurare.
Le aziende si trovano quindi nella condizione di preservare il capitale cognitivo ed esperienziale della propria forza lavoro abbinandolo a soluzioni di automazione in grado di assicurare continuità e omogeneità di risultati.
Diverse aziende hanno scelto la robotica collaborativa perché è l’unica soluzione di automazione in grado di abbinare questi due elementi, uomo e robot, permettendo la loro coesistenza fisica e operativa. Lo zuccherificio svedese Nordic Sugar ha utilizzato i nostri cobot UR5 destinandoli ad una fase preliminare del processo, il peso della polpa di barbabietola: una fase che richiede la necessaria precisione per ottenere prodotti standard.
La tedesca Ferdinand Wagner Profile, che produce profilati metallici, li ha invece integrati per il controllo qualità sulle saldature e le giunzioni dei suoi pezzi, una fase delicatissima che richiede la massima precisione pena la perdita del pezzo lavorato.
Glidewell Laboratoires, azienda statunitense del settore chimico farmaceutico, produce corone dentali. La produzione di una corona richiedeva fino a cinque giorni lavorativi dal ricevimento, da parte dei laboratori, del calco del paziente. Questo lasso di tempo veniva destinato in buona parte alle fasi di fresatura e controllo qualità del prodotto finito. L’introduzione dell’UR5 ha reso il processo del 33% più rapido.
Sono tutti esempi di aziende che hanno deciso di investire nel controllo di processo perché hanno compreso il valore, economico e reputazionale, garantito dalla qualità.
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