Domenico Appendino ha attraversato gli ultimi 40 anni di storia dell’industria italiana sempre dalla parte dell’innovazione.
Dal 1982 ad oggi, ha fatto di Prima Industrie la sua casa accompagnando la crescita di questa protagonista del panorama industriale italiano su tutti i mercati (culminata sotto la sua direzione con lo sbarco in Cina nel 2011).
Si è sempre occupato anche di robotica – non solo per Prima Industrie – ma anche all’interno di enti e associazioni come UCIMU (la consociata di Confindustria che raccoglie i costruttori di macchine utensili, strumenti per l’automazione e robot) e di SIRI, la Società Italiana di Robotica Industriale.
A chi meglio di lui chiedere dunque quale scenario evolutivo attende la robotica per il prossimo futuro?
«La robotica è uno strumento di lavoro e il lavoro dell’uomo si è evoluto nel tempo. È stato cacciatore, agricoltore, produttore. Il robot è l’aratro del terzo millennio e come l’aratro ha avuto un successo e una crescita vertiginosa.
Se ne vendevano circa 3.000 nel 1973. Dieci anni dopo erano 70.000. Oggi siamo sopra i 20 milioni di robot installati nel mondo. Nel 2019 i volumi di investimento sono scesi di un buon 12%, ma questa tendenza globale vede l’Italia in netta controtendenza.
Quindi almeno sul fronte italiano il futuro che vedo è positivo. Infatti noi abbiamo registrato un più 13%.
Considerando anche solo i dati più cauti raccolti da SIRI l’Italia ha fatto 7 volte meglio del mondo (-12%), più di 7 volte meglio dell’Asia (-13%), quasi 6 volte meglio del Giappone (-10%), 5 della Cina (-9%) e 14 della Corea (-26%), più di 7 volte meglio del Nord America (-13%) e quasi 3 volte meglio dell’Europa in generale (- 5%).
La robotica nel 2020 ha inoltre dovuto far fronte all’emergenza Covid: da un lato ha garantito posti di lavoro sicuri, dall’altro ha trovato applicazione efficace anche in ambito lontani dal manifatturiero, come in ospedale per test, disinfezione, logistica sanitaria.
Di sicuro si è creato un nuovo segmento di espansione per il mercato dei robot. La speranza è che compensi con i suoi posti di lavoro la contrazione che seguirà certamente a questa crisi e che investirà gli altri ambiti tradizionali, il manifatturiero su tutti».
CHE PERCEZIONE HA DELLA PREPARAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE RISPETTO ALLA NUOVA TECNOLOGIA?
«Noi italiani abbiamo la tendenza a lamentarci di noi stessi.
Il che a volte è positivo perché ci sprona a fare sempre meglio.
D’altrocanto però rischiamo di non vedere quanto di buono abbiamo fatto.
In Italia abbiamo delle vere e proprie eccellenze, aziende che sostanzialmente hanno due diversi rapporti con la robotica: chi la acquista e la usa in fabbrica, e chi la produce, integra e installa.
In questa seconda categoria si annidano aziende che sono il nostro vanto.
Sviluppatori di applicazioni e sistemi robotici che trovano impiego in settori per noi strategici, come la metalmeccanica, che da sola fa più export del fashion e del food messi insieme.
Molte delle applicazioni sviluppate da queste aziende sono un’altra importantissima voce di esportazione per noi.
Il know how italiano in questo settore è ricercatissimo in Europa e nel mondo. Se però osserviamo un parametro come la densità di robot (numero robot per 10.000 addetti) allora vediamo che siamo decimi, pur essendo il sesto paese nel mondo sia per robot installati che venduti.
La decrescita dell’automotive a tassi dell’8% medio annuo spiega in parte questo paradosso: siamo più bravi a produrre robot che a utilizzarli.
Se il settore di maggior impiego della robotica è in sofferenza nel nostro Paese i numeri si abbassano.
Abbiamo compensato con una presenza molto spinta nella meccanica ma molti settori ancora non sono sufficientemente ricettivi nei confronti dei vantaggi derivanti dall’automazione».
FRA I LAVORATORI SECONDO LEI È ANCORA VIVO IL TIMORE DEL “PARADIGMA SOSTITUTIVO” E DELLA POSSIBILE PERDITA DI POSTI DI LAVORO A CAUSA DELL’AUTOMAZIONE?
«Il robot nasce come strumento per valorizzare il lavoro dell’uomo, sottraendo l’essere umano da attività faticose, ripetitive e insalubri, quando non pericolose.
È chiaro che molte mansioni con queste caratteristiche hanno finito per essere totalmente automatizzate e questo ha ridotto i posti di lavoro.
Non si può nascondere però che il contributo principale della robotica è la crescita di qualità e produttività: fattori determinanti nel creare nuovi posti di lavoro in un’azienda.
La robotica stessa, inoltre, è lavoro: attorno ai robot ruotano ingeneri meccanici, elettronici, programmatori, sviluppatori.
L’industria del robot ha creato un ciclo virtuoso per cui ha generato e genera più posti di lavoro di quanti ne abbia assorbiti negli ultimi anni.
Se prendiamo le analisi e le previsioni per il 2025 del World Economic Forum 2018, a fronte di 75 milioni di posti di lavoro assorbiti dall’automazione, se ne creeranno ex novo 133 milioni generati dalla presenza dei robot.
Il saldo è ampiamente positivo. Per rendere la transizione sostenibile è però necessario investire fortemente in formazione».
COME SI DEVE AGIRE PER COMUNICARE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA E RENDERLA PIÙ SOCIALMENTE SOSTENIBILE?
«Personalmente credo che la comunicazione della transizione tecnologica debba chiamare in causa non solo le aziende, ma anche i media, spesso colpevoli di raccontare in maniera parziale l’impatto dell’automazione sul mondo del lavoro.
Faccio un esempio basandomi sui dati di una ricerca Doxa che ha analizzato il sentiment dei manager e dei lavoratori nei confronti della robotica.
Nelle aziende che fanno ricorso all’automazione la percezione dei manager nei confronti dei robot è favorevole nel 75% dei casi.
Nelle aziende che ancora non hanno una dotazione robotica il dato è più basso: 47%. Questo da un lato significa che chi è chiamato a ruoli manageriali, se testa i robot, ne ha un ritorno positivo (in termini di qualità e produttività) e li apprezza.
Il dato se vogliamo più rappresentativo è però quello che riguarda il sentiment dei lavoratori: nella aziende non robotizzate i robot godono il favore del 48% dei lavoratori.
In quelle robotizzate questa percentuale sale al 67%, quasi 20 punti in più. Anche i lavoratori apprezzano la robotica se la provano».
SECONDO LEI QUALI ATTORI DEVONO ENTRARE IN CAMPO PER ADEGUARE L’OFFERTA FORMATIVA E RENDERE LE COMPETENZE POSSEDUTE DAI NEOLAUREATI IMMEDIATAMENTE SPENDIBILI NEL MONDO DEL LAVORO IN AMBITO INDUSTRIALE? E IN CHE MODO IMMAGINA CHE TALI ATTORI DEBBANO AGIRE SINERGICAMENTE?
«Quali attori? Tutti. Con un’avvertenza: è quasi impossibile sapere oggi su quali strumenti e prodotti sarà chiamato ad operare un neolaureato domani.
L’evoluzione è così rapida che non è credibile definire oggi le competenze che si dovranno possedere domani.
Per questo voglio spezzare una lancia in favore della scuola italiana: una scuola di altissimo livello che per tradizione prima di ogni altra cosa fa sì che i suoi studenti imparino ad imparare.
È questo il grande lascito di scuole come il liceo, che danno una forma mentis aperta ai suoi studenti e che li preparano ad affrontare problemi di base, con flessibilità e metodo.
Per molti anni abbiamo seguito il mantra della specializzazione. Oggi questo approccio mostra la corda: è necessario essere flessibili adattabili, capaci – nel corso di una vita professionale – di cambiare più lavori».
L’ADEGUAMENTO DI COMPETENZE È UN PASSO NECESSARIO – MA SUFFICIENTE? – PER RENDERE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA PIÙ SOSTENIBILE?
«No, non è sufficiente. Al reskilling degli operatori, che è una priorità impellente, si associa il tema della formazione continua. Non si tratta solo di colmare un gap, ma di crescere continuamente (in competenza, ndr) e in parallelo con il mutare delle tecnologie. Quindi si tratta di realizzare un percorso di formazione continua.
Da un lato vi è la necessità di convertire mansioni e competenze per conservare posti di lavoro in essere, dall’altro questa conversione non può essere demandata esclusivamente alle aziende.
È necessario che della partita siano anche lo stato, la scuola, gli enti di ricerca. I più esposti a questa transizione sono soprattutto gli operatori più anziani.
I giovani hanno una familiarità più spiccata con il mondo digitale e sono più aperti alla formazione, non foss’altro perché per loro la formazione è un’esperienza più recente».