Robotica e lavoro, paradigma sostitutivo, automazione spinta a scapito del lavoro manuale e dei posti di lavoro stessi, sicurezza. Sono alcuni dei temi più spinosi e controversi che hanno accompagnato la narrazione legata all’introduzione dei robot in fabbrica. Temi che hanno polarizzato l’opinione pubblica e la contrattazione sindacale.
In previsione degli Stati Generali della Robotica Collaborativa, evento in cui Universal Robots intende discutere insieme ad alcuni dei più grandi esperti nazionali dell’impatto dei cobot nel ridisegnare non solo la fabbrica ma anche l’operatore e le sue mansioni, abbiamo chiesto al sindacato di partecipare, per raccogliere il punto di vista dei lavoratori su una tecnologia che è diventata quotidianità in molti contesti produttivi.
Con Francesco Messano, sindacalista della UILM, il sindacato dei metalmeccanici afferente alla UIL, siamo partiti dal ruolo presente e futuro della robotica. Messano è uomo che costruisce ponti e non erige steccati: «Contrariamente a quello che si pensa sono molti di più i tavoli su cui siamo in accordo con il mondo datoriale che quelli a cui si arriva alla frattura. Sulla robotica si gioca un pezzo del futuro produttivo Paese».
BENE MESSANO. PARTIAMO PROPRIO DA QUI, DALLA ROBOTICA. CHE RUOLO IMMAGINA PER QUESTA TECNOLOGIA NEL PROSSIMO FUTURO? QUALI ORIZZONTI DI SVILUPPO PREVEDE O AUSPICA?
«Prevedo un utilizzo sempre più massiccio e diffuso nelle aziende. È un processo evolutivo che non è possibile arrestare.
Ma va guidato, per far sì che la robotica operi in modo sinergico con gli operatori e non in sostituzione.
In questa accezione la robotica collaborativa è una tecnologia molto interessante e convincente perché agisce positivamente su entrambi i fronti, quello datoriale e quello del lavoratore.
L’azienda gode di prodotti di qualità più costante e maggiore, il lavoratore viene sollevato dalla parte di mansione più faticosa, ripetitiva e protetto da eventuali danni alla salute.
Penso ad esempio a tutte quelle attività che hanno un impatto molto pesante sull’apparato muscolo scheletrico.
Il mio auspicio per il futuro è che la robotica si arricchisca di componenti di intelligenza artificiale tali da renderla capace di interagire non solo con l’operatore, ma con l’ambiente stesso. Una robotica pienamente collaborativa, adattiva, capace di migliore la condizioni produttive e lavorative».
CHE PERCEZIONE HA DELLA PREPARAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE RISPETTO ALLA NUOVA TECNOLOGIA? C’È UN GAP DI COMPETENZE DA COLMARE?
«Il gap c’è ed è innegabile. I dati di cui dispone il sindacato sono chiari: c’è molta più offerta tecnologica rispetto all’offerta formativa ad essa connessa.
Il bisogno fa l’organo e questa nuova tecnologia sta creando nuove professioni che non trovano però una risposta soddisfacente, in termini di formazione scolastica, negli istituti scolastici e nelle università.
Chiarisco con un dato sintetico ed esemplificativo: la richiesta di tecnici meccatronici è molto più elevata del numero di laureati e diplomati sfornati dalla scuola italiana.
In questo disallineamento fra domanda e offerta vi è la vera emorragia di posti di lavoro.
A questo aggiungiamo che ad esempio su molti task manuali e scarsamente specializzati la richiesta delle aziende è in costante calo, mentre cresce l’offerta da parte di lavoratori ancora poco formati e pronti a ricoprire quelle posizioni a più basso valore aggiunto. Anche qui il saldo occupazionale desta preoccupazione.
La robotica sta però incidendo profondamente a livello culturale. Non è una tecnologia che possiamo mettere da parte, ma dobbiamo adottare dei correttivi per far si che si possa coglierne l’opportunità in termini di nuovi posti di lavoro, maggiore produttività, miglioramento delle condizioni di lavoro.
È l’unico modo efficace è investire in formazione, costantemente e in maniera focalizzata sulle nuove tecnologie, per mettere i lavoratori nelle condizioni di avvantaggiarsene e migliorare le proprie condizioni di lavoro».
SECONDO LEI QUALI ATTORI DEVONO ENTRARE IN CAMPO PER ADEGUARE L’OFFERTA FORMATIVA E RENDERE LE COMPETENZE POSSEDUTE DAI NEOLAUREATI IMMEDIATAMENTE SPENDIBILI NEL MONDO DEL LAVORO IN AMBITO INDUSTRIALE? E IN CHE MODO IMMAGINA CHE TALI ATTORI DEBBANO AGIRE SINERGICAMENTE?
«Vorrei chiarire due concetti.
Il primo sta nell’avverbio che ha utilizzato: sinergicamente.
Oggi io vedo tutti gli attori protagonisti del campo formativo andare in ordine sparso. Sembrano tutti formidabili cavalli da tiro che vanno ognuno in direzione diversa.
Il secondo è che non è sufficiente sederli tutti intorno a un tavolo o accoppiarli in una carrozza.
Devono subentrare attori di livello superiore. Penso ad esempio alla UE, che investa fondi e risorse nel campo della ricerca e della formazione.
I giovani laureati scappano, i tecnici ultraformati trovano lavoro altrove. Il mercato, anche in presenza di competenze altissime come quelle espresse dalla manifattura e dall’università italiana, non è in grado di assorbirle.
Perché? Io credo che la causa sia da ricercarsi nella mancanza di una proposta comune che metta insieme aziende, università e scuola, e mercato in generale. Questa assenza di visione comune ostacola la creazione di posti di lavoro e crea terreno fertile per disoccupazione, disuguaglianze e sofferenza sociale.
È necessario inventarsi qualcosa che oggi ancora non esiste per mettere insieme queste diverse posizioni ed esigenze e arrivare a una proposta comune.
Un ruolo strategico in questo senso lo possono giocare i molti competence center italiani, attori del trasferimento di competenza e di tecnologia.
Il compito che li attende è arduo: da un lato preparare il terreno nelle aziende per implementare tecnologia nuova (che troppo spesso vedo ancora guardata con diffidenza) dall’altro preparare il mondo datoriale a ripensare la produzione attorno alla tecnologia stessa.
Ripensare il processo produttivo in questo senso io credo avrà effetti benefici anche sul lavoro e sulla salute. Rimane, ineludibile, il problema delle risorse. Vanno messe in campo perché tutto questo si realizzi».
FRA I LAVORATORI SECONDO LEI È ANCORA VIVO IL TIMORE DEL “PARADIGMA SOSTITUTIVO” E DELLA POSSIBILE PERDITA DI POSTI DI LAVORO A CAUSA DELL’AUTOMAZIONE? COME DEVONO AGIRE LE AZIENDE PER COMUNICARE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA E RENDERLA PIÙ SOCIALMENTE SOSTENIBILE?
«Sì, è un timore ancora vivo. E in parte dipende anche dalla conformazione stessa del tessuto produttivo italiano che è composto in larghissima maggioranza da microimprese. In questi contesti vedere arrivare un robot incute paura, si pensa immediatamente alla perdita di lavoro.
A questo aggiungiamo che la prima ondata di robot in fabbrica nel secolo scorso ha davvero inciso pesantemente sul saldo occupazionale. L’implementazione è stata troppo rapida, non guidata con sufficiente preveggenza.
Le aziende oggi devono essere consapevoli della sfida per rendere la transizione tecnologica sostenibile.
Fra le azioni da mettere in campo ribadisco la formazione continua, specifica sull’uso delle nuove tecnologie. Se poi queste sono di tipo collaborativo, quindi intrinsecamente sicure, semplici da usare rapide nel dare risultati (sia in termini di ergonomia che di resa economica, essenziale perché l’azienda prosperi) allora il processo sarà positivo.
In questi termini la robotica diventa una risorsa per tutti e non un costo».