Andrea Zanchettin, classe 1983, insegna Automazione presso il Politecnico di Milano. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Information Technology nel 2012 con una tesi dal titolo "Human-centric behaviour of redundant manipulators under kinematic control" e in qualche modo pensare la robotica intorno all’uomo è al centro della nostra riflessione e della prima risposta che Andrea ci dà.
«Che ruolo immagino avrà la robotica collaborativa nel prossimo futuro? Beh, io credo che a breve termine assisteremo ad una transizione (sempre più chiara e definita) fra applicazioni di pura e semplice coesistenza fra robot e operatori e applicazioni di piena collaborazione.
Mi spiego. I cobot – pur essendo nati per questo ambito, ovvero la collaborazione – sono finora stati utilizzati nella maggior parte dei casi per applicazioni quali carico e scarico merci, movimentazione di materiali, pallettizzazione ecc ecc. Ambiti in cui la collaborazione può non essere centrale.
Ciò di cui le imprese si sono avvantaggiate sinora è stata le semplicità di programmazione e installazione, non tanto i vantaggi della collaborazione in sé.
Questi emergeranno quando avverrà anche un ripensamento culturale della fabbrica nel suo complesso e quando uomo e robot saranno centrali nel processo con l’operatore posto a monte a o valle del robot, quindi quando fornirà un componente al robot o ne verificherà l’operato a valle.
Questo nuovo punto di vista amplia enormemente le possibilità applicative rendendo il processo produttivo al tempo stesso più flessibile e capace di gestire la complessità. Questi sono gli orizzonti di sviluppo che immagino e prevedo per la robotica collaborativa. Una fabbrica nuova in cui la collaborazione uomo-robot sarà centrale».
CHE PERCEZIONE HA DELLA PREPARAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE RISPETTO ALLA NUOVA TECNOLOGIA? C’È UN GAP DI COMPETENZE DA COLMARE?
«Credo che il gap si stia colmando: le nostre aziende sono sempre meglio preparate. Vedo inoltre molta curiosità, apertura e voglia di capire i vantaggi della tecnologia che si installa.
Detto questo credo che le aziende per prime siano consapevoli che alcuni aspetti debbano ancora essere approfonditi e sia necessario saperne di più prima di sfruttare al massimo questi strumenti.
L’ambito in cui registro il maggior gap è però quello relativo alle possibilità applicative: da un lato vale quello che dicevo poco fa e cioè che non si sfrutta appieno il potenziale dei cobot utilizzandoli in maniera non pienamente collaborativa.
Dall’altro si finisce per nutrire aspettative irrealistiche verso di essi. Non sono automazioni tradizionali, ma strumenti intelligenti attorno a cui ripensare il processo in ottica collaborativa.
Quindi non vanno intesi come robot tradizionali più piccoli ed economici. Sono qualcosa di completamente diverso e come tali vanno intesi e utilizzati per apprezzarne gli enormi vantaggi.
Ad esempio: uno degli ambiti in cui vedo i maggiori scenari di sviluppo in quest’ottica sono le linee di assemblaggio, che offrono numerose casistiche di reale e preziosa collaborazione fra uomo e robot».
SECONDO LEI QUALI ATTORI DEVONO ENTRARE IN CAMPO PER ADEGUARE L’OFFERTA FORMATIVA E RENDERE LE COMPETENZE POSSEDUTE DAI NEOLAUREATI IMMEDIATAMENTE SPENDIBILI NEL MONDO DEL LAVORO IN AMBITO INDUSTRIALE? E IN CHE MODO IMMAGINA CHE TALI ATTORI DEBBANO AGIRE SINERGICAMENTE?
«Credo che l’adeguamento dell’offerta formativa debba essere una sinfonia, non tanto un assolo.
Tutti devono entrare in campo, dall’università che offre metodo, studio, ricerca, all’integratore che offre invece soluzioni pratiche altrettanto importanti per la formazione.
Così come centri di ricerca che traducono la ricerca e lo sviluppo in casi applicativi reali o le fiere che aggregano di versi tipi di soluzioni concrete. Tutti hanno un ruolo e un’importanza.
La parola chiave è integrazione. Tutti gli attori devono interagire e le loro azioni vanno integrate per avere un’offerta formativa completa.
Da professore quello che mi preme è fornire ai miei allievi basi solide, anche se sono consapevole che non sono sufficienti a costruire un profilo professionale immediatamente spendibile.
Occorre anche una formazione pratica, in cui si tocchi con mano la tecnologia che si studia. La formazione pratica all’interno delle Università affronta però grandi ostacoli, legati principalmente al turn over e alla mancanza di personale in grado di assicurare a tutti gli allievi un percorso formativo pratico.
Credo quindi che andrebbero messe in campo maggiori risorse per adeguare la consistenza del corpo docente e permettere agli allievi di esercitarsi praticamente».
FRA I LAVORATORI SECONDO LEI È ANCORA VIVO IL TIMORE DEL “PARADIGMA SOSTITUTIVO” E DELLA POSSIBILE PERDITA DI POSTI DI LAVORO A CAUSA DELL’AUTOMAZIONE? COME DEVONO AGIRE LE AZIENDE PER COMUNICARE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA E RENDERLA PIÙ SOCIALMENTE SOSTENIBILE?
«In parte questo timore esiste ancora. L’operaio generico ha la consapevolezza che la sua mansione potrebbe venir eseguita da un robot.
È un timore scatenato da ogni tipo di tecnologia, in ogni epoca. Persino io potrei venir sostituito da una registrazione. Un pod cast del professor Zanchettin al posto di quello in carne e ossa.
La mia presenza fisica garantisce però un valore aggiunto, dato dalla possibilità di confronto e approfondimento che una registrazione evidentemente non è in grado di assicurare.
Lo stesso tipo di vantaggio lo può fornire un operaio presente fisicamente sulla linea in termini di flessibilità, problem solving, capacità analitica. Ci va una maggiore dose di consapevolezza e programmazione, però. La robotica garantisce maggiore produttività e qualità, che si traduce in introiti più elevati.
Queste maggiori entrate andrebbero investite per adeguare il bagaglio di competenze dei lavoratori, così come per assumerne di nuovi per coprire mansione a valore aggiunto sempre più elevato.
Intendiamoci: va benissimo l’automazione per ridurre i costi, ma sono convinto che sia più vantaggioso utilizzarla invece per accrescere il valore e la qualità del prodotto. Tagliare i costi per stare al passo con paesi che hanno un mercato del lavoro più competitivo del nostro è una tattica perdente.
Meglio preservare il valore del bene, accrescerlo. Questo genera un plus valore che va redistribuito lungo tutta la catena: produttore, distributore, cliente finale. Ma il primo a guadagnarne è proprio l’operatore: che opera su un bene prezioso e la cui posizione di lavoratore è più forte e sicura».