Il curriculum di Antonio Bicchi è impressionante e inanella docenze e attività di ricerca presso i più importanti atenei italiani (e non solo) nel campo della robotica. Dalla Università di Pisa, all’IIT di Genova, dall’Arizona State University al M.I.T. di Boston.
Come docente ha attraversato gli ultimi 30 anni della storia della robotica. Un uomo che ne conosce bene il passato e a cui è lecito chiedere cosa vede per il futuro di questa tecnologia.
«Nella mia immaginazione vedo la robotica come una tecnologia sempre più pervasiva, accanto a noi nella vita privata, così come in quella professionale.
Inoltre credo che molti degli aspetti che caratterizzano la robotica collaborativa, fra cui la semplicità d’uso, contageranno anche gli altri tipi di robotica.
I robot sono soluzioni destinate ad uscire dai confini di fabbrica e incidere nella nostra vita quotidiana.
All’inizio certo saranno ancora una soluzione tipicamente industriale (ma con interfacce utente sempre più user friendly e autonome nell’apprendimento con protocolli di I.A.), poi usciranno dal contesto produttivo per divenire una tecnologia assolutamente mainstream, quotidiana».
CHE PERCEZIONE HA DELLA PREPARAZIONE DELLE AZIENDE ITALIANE RISPETTO ALLA NUOVA TECNOLOGIA? C’È UN GAP DI COMPETENZE DA COLMARE?
«Le nostre aziende dovrebbero renderci orgogliosi.
Il nostro è un paese all’avanguardia nella ricerca e nell’uso della tecnologia robotica, che è da decenni un asset strategico per il nostro manifatturiero.
Le aziende italiane sono molto preparate.
Se un gap c’è non è nel livello di competenza, quanto piuttosto nella comunicazione, nel trasferimento delle immense potenzialità sviluppate dalla ricerca italiana (fra le prime al mondo in ambito robotico) alle imprese.
È necessario assicurare che quanto viene studiato, approfondito, scoperto negli atenei, arrivi anche alle PMI.
Intendiamoci, come ho detto la competenza delle imprese è molto elevata, ma potrebbe esserlo ancora di più se il trasferimento di conoscenze fra università e aziende avvenisse con ancora più intensità.
Ci sono aree del paese in cui le imprese scontano più di altre questa mancanza di dialogo con il mondo della ricerca: a queste realtà vanno portate le risorse umane formate nelle università, qui vanno concentrati gli sforzi per un maggiore trasferimento.
E questo può essere fatto solo abbandonando una regia regionalistica a favore di un coordinamento nazionale che deve includere istituti e atenei così come i competence center e l’Istituto di Robotica e Macchine Intelligenti.».
SECONDO LEI QUALI ATTORI DEVONO ENTRARE IN CAMPO PER ADEGUARE L’OFFERTA FORMATIVA E RENDERE LE COMPETENZE POSSEDUTE DAI NEOLAUREATI IMMEDIATAMENTE SPENDIBILI NEL MONDO DEL LAVORO IN AMBITO INDUSTRIALE? E IN CHE MODO IMMAGINA CHE TALI ATTORI DEBBANO AGIRE SINERGICAMENTE?
«Ma vede, io non credo che la robotica vada studiata solo all’università. È secondo me una materia che può attraversare trasversalmente tutti i gradi di istruzione, certo con approfondimenti coerenti con il livello di preparazione.
La robotica è una disciplina integrativa. Ha in sé elementi di informatica, di meccanica, di elettronica e matematica, ma anche di etica e filosofia. È uno strumento educativo completo.
Quindi direi che tutti gli attori della scuola, in ogni ordine e grado, dovrebbero collaborare per creare una crescita costante e progressiva delle competenze fin dai primi stadi del percorso scolastico».
PARLIAMO ORA DI LAVORO E LAVORATORI. SECONDO LEI È ANCORA VIVO IL TIMORE DEL “PARADIGMA SOSTITUTIVO” E DELLA POSSIBILE PERDITA DI POSTI DI LAVORO A CAUSA DELL’AUTOMAZIONE? COME DEVONO AGIRE LE AZIENDE PER COMUNICARE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA E RENDERLA PIÙ SOCIALMENTE SOSTENIBILE?
«Secondo me questo timore è oggi profondamente ridimensionato. La vicenda sociosanitaria che stiamo vivendo in questi mesi (la crisi pandemica causata dal Covid19, ndr) ha causato un forte re-innamoramento verso la robotica, una tecnologia oggi in grado di sostenere le aziende e mettere in sicurezza i lavoratori.
La paura di perdere il lavoro è ancora presente, certo, ma in misura molto minore. Prepararsi all’uso della robotica è un’opportunità.
Anche perché l’alternativa potrebbe essere peggiore e includere la emigrazione della produzione verso altri paesi, magari a minore tecnologia, o la immigrazione di forza lavoro a bassa qualificazione e di difficile integrazione sociale.
C’è poi una remora che è più psicologica che socioeconomica e che deriva dall’aspetto antropomorfo del robot. Anche questo tipo di paura va affrontato con un opportuno approccio umanista (human-centered) al progetto, e comunicando quelli che sono i benefici più immediati, come l’aumento di produttività che è la spinta principale a nuove assunzioni».
L’ADEGUAMENTO DI COMPETENZE È UN PASSO NECESSARIO – MA SUFFICIENTE? – PER RENDERE LA TRANSIZIONE TECNOLOGICA PIÙ SOSTENIBILE?
«Sicuramente un adeguamento delle competenze dell’operaio è necessaria. Al tempo stesso vanno semplificati i processi di programmazione, che rimane sempre una delle voci di costo maggiore per le aziende costrette a fare ricorso a professionisti esterni per programmare le macchine.
Semplificare deve essere un mantra per chi si occupa di robotica collaborativa. Il prossimo passo sarà quello dell’apprendimento autonomo della macchina, che avverrà soprattutto attraverso la sua collaborazione con l’uomo. Un apprendimento collaborativo».